sabato 2 giugno 2012

L’orrore di Martin’s Beach (con Sonia Greene 1922)


Il racconto, narrato da un testimone, narra degli inquietanti avvenimenti avvenuti nel 1922 e sfociati nell’orrore l’8 agosto. Dopo anni tante sono le versioni con le più disparate ipotesi senza contare il tentativo da parte del prestigioso Hotel Wavecrest di mettere tutto a tacere dopo l’articolo del professor Alton intitolato “Solo gli esseri umani possono ipnotizzare?”.

Il 17 maggio l’equipaggio del peschereccio Alma di Gloucester, comandato dal capitano James P. Orne, dopo una battaglia di quasi 4 ore riusciva ad avere la meglio su una creatura marina sconosciuta. Portata a terra alcuni naturalisti di boston provvidero ad imbalsamarla. Lunga circa quindici metri e larga 3, aveva una forma cilindrica. Era un animale branchiato ma differente dai pesci per via di rudimentali zampe anteriori e piedi a sei dita, la bocca straordinaria, la pelle squamosa e un unico occhio profondamente incassato. I naturalisti affermavano inoltre che si trattava di un esemplare giovanissimo, nato da non più di qualche giorno.

Il comandante Orne allestì un piccolo museo marino su di un vascello e attraccato al molo dell’Hotel Wavecrest, nella ricca zona di Martin’s Beach, guadagnò parecchio denaro vendendo biglietti.

La mattina del 20 luglio, però, durante il temporale della notte precedente, l’imbarcazione si disancorò prendendo il largo. Dopo numerosi tentativi di recupero il capitano Orne dovette rassegnarsi alla perdita del suo museo galleggiante, della creatura imbalsamata e persino all’uomo di guardia che si trovava a bordo quella notte.

L’orrore si verificò l’8 agosto.
Era una serata tranquilla, gruppi di gente e turisti erano sparsi in spiaggia, altri provenivano dalla collina a nord, altri ancora cenavano nel patio dell’hotel. La luna quasi piena si innalzava “più di trenta centimetri” sull’orizzonte quando qualcuno credette di scorgere una decisa e minacciosa increspatura del mare avanzar verso la spiaggia per poi sparire. Ad un tratto al largo, nella foschia argentata, si alzò un urlo di morte. I due bagnini si recarono a prestare soccorso giungendo nella zona della spiaggia, dove si era già radunata una folla di curiosi. Lanciarono quindi in acqua un salvagente legato ad una corda in direzione del punto da cui era provenuto l’urlo. 

Cominciando a tirare la cima ma con sorpresa notarono che non riuscivano a smuovere l’oggetto all’atro capo: anzi scoprirono che esso li tirava con forza uguale. Chiesero allora aiuto ai più forti dei presenti. Tra di essi c’era pure il capitano Orne, il quale non poté non ipotizzare che dall’atro capo della corda ci fosse una creatura come quella che aveva catturato, per cui mettendosi a capo dell’operazione di recupero ordinò ai suoi uomini di procurarsi un’imbarcazione per arpionare e trasportare a riva la creatura mentre egli e altri uomini avrebbero tirato finché non fosse giunta l’imbarcazione.

Più di dodici uomini tiravano senza nessun risultato, al contrario questi lentamente avanzavano verso l’acqua che cominciò a lambire i loro piedi, poi le ginocchia e così via.
Orne si voltò per farsi dare il cambio quando scoprì con sgomento di non riuscire a lasciare al presa. Lo stesso accadde agli altri tiratori. Nel silenzio più assoluto, molti spettatori assistettero al lento avanzare di quegli uomini.

Spingendo lo sguardo oltre le teste l’immaginazione evocò un altro occhio, luminoso e animato da un proposito rivoltante. 

La luna fu nascosta da nuvole che accumulandosi formarono una massa minacciosa. Un tuono rombò, il boato di un lampo e subito un violento acquazzone. Molti andarono via.
Nella semioscurità gli spettatori rimasti videro le vittime che affondavano sempre più rapidamente per poi svanire in un mulinello d’acqua. 

La pioggia cessò e la luna illuminò il mare con i suoi pallidi raggi e fu allora che da profondità abbissali arrivò l’eco attutita e sinistra di una risata. 



Prima collaborazione di Lovecraft con la futura moglie

sabato 26 maggio 2012

La scomparsa di Juan Romero (16 sett 1919)


Il racconto è una confessione del protagonista nei suoi ultimi anni di vita. Egli preferire mantenere celato il suo nome e le sue origini. D'altronde egli afferma di essere emigrato negli Stati Uniti per lasciare il suo passato alle spalle. Un tempo era stato sotto le armi in India ed avendo sondato le dottrine d’Oriente si sentiva più a suo agio tra i barbuti maestri orientali che non tra i colleghi dell’esercito.

Nell’estate e nell’autunno del 1894 viveva nelle distese aride delle Cactus Mountains lavorando come semplice operaio presso la famosa miniera Norton.  Una grotta d’oro profondamente nascosta sotto un lago di montagna. Si erano scoperte altre grotte e il soprintendente, un certo signor Arthur, ipotizzava sulla probabile estensione della rete di caverne. Un esercito di miniatori lavorava notte e giorno.

Il messicano Juan Romero giunse alla miniera poco dopo il protagonista. In lui non c’era niente del conquistador castigliano o del pioniere americano ma dell’antico e nobile azteco. Il taciturno peone si alzava la mattina presto e seguiva affascinato il sorgere del sole fra le montagne tenendo le braccia tese verso l’astro come in una sorta di rito. Sporco ed ignorante proveniva da un ambiente bassissimo. Da bambino era stato trovato in una rozza capanna di montagna unico superstite d’un epidemia. I corpi dei probabili genitori erano stati spolpati dagli avvoltoi e ritrovati in una strana fenditura nella roccia poco lontana dalla capanna. In seguito una valanga distrusse ogni traccia della scena. Fu allevato da una famiglia di ladri di bestiame che gli diede il nome di Juan.

L’attaccamento che provava per il protagonista era dovuto all’antico e curioso anello indù che portava nei momenti di riposo. Il curioso messicano lo guardava affascinato. I bizzarri geroglifici che coprivano l’anello sembravano risvegliare nella sua mente qualche vago ricordo, anche se non era possibile che li avesse visti altrove.

18 e 19 ottobre 1894
Durante le operazioni di ampliamento della miniera si fecero esplodere delle cariche talmente potenti che incresparono il lago Jewel. Le indagini dimostrarono che sotto la sede dello scoppio si era aperto un abisso senza fondo. Nessuna lampada riusciva ad illuminarla e nessuna corda poteva toccarne il fondo. Gli operai si rifiutarono di lavorare in quell’ambiente. 

Alle due del mattino un coyote cominciò ad ululare. Un temporale si annunciava oltre le cime delle montagne e le nuvole dalle forme fantastiche coprivano la luna a tre quarti.
Il protagonista fu svegliato da Romero agitato.
- “Madre de Dios! … el sonido … oiga Vd! Lo oye Vd?”
Cercò di capire a cosa si riferisse e alla fine capì:
- “El ritmo … el ritmo de la tierra … Quelle pulsazioni nel terreno ”.
Gli venne in mente un brano di Joseph Glanvill citato da Poe:
“La vastità, profondità e imperscrutabilità dell’opera Sua, più profonda del pozzo di Democrito”

Romero balzò dalla cuccetta e si fermò a fissare l’anello che brillava in modo strano a ogni lampo, poi si diresse verso la miniera. I due giunsero alla miniera senza essere visti. Mentre scendevano nel pozzo il ritmo pulsante si fece articolato come un battere di tamburi e un coro di molte voci. Percorrendo sale e corridoi si accorse di poter vedere pur non avendo con se lampade e si rese conto che l’anello emanava uno strano lucore innaturale, rischiarando debolmente l’aria umida e soffocante. Una nota diversa, pazzesca, si era insinuata nella melodia. Romero cominciò a correre. Rimasto solo poteva sentirlo urlare esprimendosi in una lingua del tutto sconosciuta.. l’unica parola che riuscì a decifrare fu “Huitzilopotchli” che in seguito rintracciò nell’opera del grande storico (Prescott, Conquest of Mexico) rabbrividendo per le implicazioni che suggeriva.

Arrivato dove si apriva l’abisso, la luce dell’anello si spense mentre un’altra si accese nelle viscere della terra. Un pandemonio di fiamme ondeggianti e orrendi rumori. Prima una vaga chiazza luminosa poi dalla confusione cominciarono a staccarsi delle sagome tra le quali vide … Romero. Svenne.

Si risvegliò nella sua branda all’alba. A pochi metri da lui il cadavere di Juan Romero steso su un tavolo circondato da un gruppo di uomini. La morte fu attribuita al lampo che aveva compito e fatto tremare le montagne. Il temporale aveva generato una valanga che aveva richiuso la voragine. In seguito tentarono di scavare per riaprirla senza alcun esito per cui infine abbandonarono il progetto.
Il suo anello era spiegabilmente sparito e non fu più ritrovato.

Ormai dopo anni … “ritengo che si sia trattato di un sogno e niente più … ma a volte in autunno sento il maledetto pulsare della terra … allora ho la certezza che la scomparsa di Juan Romero sia stata, in realtà, una fine atroce”.



domenica 6 maggio 2012

I gatti di Ulthar (15-06-1920)


L’Egitto è depositario di racconti che risalgono alle città dimenticate di Meroe e Ophir, dei segreti dell’Africa oscura e misteriosa.

Ad Ulthar, città oltre il fiume Skai vivevano un vecchio contadino e sua moglie che si divertivano ad intrappolare ed uccidere i gatti che osavano entrare nella loro proprietà. La loro casa sorgeva all’ombra dei rami di vecchie querce che sbucavano dal retro di un cortile dimenticato da tempo.
Gli abitanti pur sospettando della coppia non aveva prove certe per accusarli e nessuno osava rivolgere loro la parola.  Sta di fatto che ogni volta che un gattino si dirigesse verso la capanna sotto le querce nere, dopo il tramonto si sentivano certi lamenti, e dell’animale non se ne sapeva più nulla.

Un giorno giunse in città una carovana di nomadi diversi da tutti gli altri che erano passati di li. Essi, in cambio di pezzi d’argenti, leggevano il futuro e compravano perline colorate nelle botteghe. I loro carri erano decorati con effigi misteriose col corpo umano e teste di gatti, falchi, arieti e leoni, ed il loro capo indossava un copricapo con due corni e un curioso disco in mezzo. 

Tra i nomadi faceva parte un ragazzo di nome Menes, senza genitori, molto malato il cui unico conforto era un piccolo gattino nero. Quando una notte l’animale sparì, il ragazzo cominciò a piangere e i cittadini gli raccontarono dell’inquietante coppia. Allora questi rivolgendosi al cielo cominciò ad intonare una misteriosa preghiera. Le nuvole assunsero strane forme: figure esotiche fatte d’ombra di creature ibride sormontate da corni con un disco in mezzo.

La stesa notte la carovana ripartì. Mentre la gente scoprì con sorpresa che tutti i gatti della città erano spariti. Qualcuno affermava di averli visti dirigersi verso la capanna dei due anziati (Atal figlio del locandiere), altri come il vecchio Kranon affermava che erano stati i nomadi a rubarli. 

L’indomani tutti i gatti fecero ritorno alla proprie abitazioni. Avevano un aspetto magnifico e sembravano ingrassati, tanto da rifiutare il cibo che gli veniva offerto.

Passata una settimana, i cittadini di Ulthar si accorsero che dalla vecchia capanna non filtrava luce, e il magro Nith osservò che nessuno aveva più visto i due vecchi. Anche se con riluttanza fu organizzata una spedizione capitanata dal borgomastro assieme al fabbro Shang e il tagliapietre Thul. Dopo aver abbattuto la porticina trovarono due scheletri perfettamente ripuliti accanto al camino e per terra una gran numero di grossi scarafaggi. 

Tra i notabili ci furono numerose discussioni. Zath il medico parlò a lungo con il primo notaio Nith e gli altri, e alla fine approvarono la famosa legge di cui raccontano i mercanti di Hatheg e su cui discutoni i viaggiatori a Nir: che a Ulthar nessuno può uccidere un gatto.



Lovecraft aveva una grande passione per i gatti. Ne ebbe uno che si chiamava Nigger-Man.

Un’illustrazione e una vecchia casa (12-12-1920)


Il protagonista narra la sua spiacevole avventura avvenuta in un pomeriggio del novembre del 1896. Diretto in bicicletta da Boston ad Arkam per delle ricerche genealogiche, attraversando i boschi nella valle del Miskatonic, fu sorpreso da un temporale e cercando rifugio trovò un antico e repellente edificio di legno in mezzo a due grandi olmi nudi ai piedi di un’altura rocciosa. 

Pur credendo che la fattoria fosse disabitata bussò senza ottenere risposta così con un po’ di timore aprì la porta ed entrò. L’ingresso era piccolo e spoglio. Una scala portava al piano superiore mentre ai lati due porte chiuse immettevano in altri ambienti. Dalla porta di sinistra entrò in un salotto scarsamente arredato: un tavolo, diverse sedie, un camino su cui ticchettava un vecchio orologio. Curiosando per la stanza notò alcune carte e dei libri poggiati sul tavolo (una Bibbia del sec. XVIII, una copia del Pilgrim’s Progress dello stesso periodo illustrata con grottesche incisioni su legno e stampata dal fabbricante di almanacchi Isaiah Thomas, le pagine semimarcite del Magnalia Christi Americana di Cotton Mather e altri libri ugualmente antiquati). Tra questi notò un libro in ottimo stato, di media grandezza rilegato in pelle con fermagli di metallo. Il suo stupore crebbe quando scoprì che si trattava della rarissima descrizione del Congo (Regnum Congo) redatta in latino da Pigafetta e basata sugli appunti del marinaio Lopez, arricchita dalle curiose illustrazioni (congolesi dalla pelle bianca e i lineamenti europei) dei fratelli De Bry, data di pubblicazione Francoforte 1598.  

Sfogliò il libro incuriosito e notò la tendenza del volume ad aprirsi alla pagina dove si trovava la Tavola XII che rappresentava, con orrendi particolari, una macelleria dei cannibali Anzique.

Ad un tratto fu sorpreso da un rumore di passi nella stanza di sopra. Attese finché la porta del salotto non si aprì e sulla soglia comparve uno strano uomo. Un vecchio dalla barba bianca vestito di stracci alto e possente. La fronte coperta da una ciocca di capelli bianchi e gli occhi azzurri, benché un po’ iniettati di sangue, sembravano anormalmente intensi ed acuti. Seppur trascurato appariva distinto e impressionante.  
Fece accomodare il suo ospite e si sedette di fronte al lui. Parlava in modo stranissimo, una forma esasperata di dialetto americano ormai in disuso da tempo.

Parlarono della pioggia e come non passasse più nessuno da quelle parti dopo che era stata tolta la diligenza per Arkam. Presto la discussione passò al libro e di come il vecchio ne fosse venuto in possesso. Questi  rispose che gli era stato regalato dal capitano Ebenezer Holt nel sessantotto. Questi navigò per anni su un mercantile di Salem collezionando cose curiose ad ogni porto in cui si fermava. Li libro in questione lo trovò a Londra.

Il vecchio prese il libro ed, inforcando un paio di occhiali sporchi e antiquati con piccole lenti ottagonali e montatura di ferro, rifletteva sulla sua stranezza, specie delle illustrazioni.

Ebenezer sapeje legge lu latinu ma io no. Me lu leggeje due o tre mastri de scola e poi lu parroco Clark, quello che annegaje nello stagno… strano come’ figure fanno pensare, … hai visto mai alberi co ‘e foglie così grandi… e l’uomini … mica sono negri, non ci somigliano … chisti so’ come scimmie o miezz’uomini e miezzo scimmie”. 

Poi indicò un’altra illustrazione che rappresentava un incrocio tra un drago e una testa di alligatore per poi arrivare alla Tavola XII.
Il suo interesse morboso per quella scena era evidente, facendo notare allo sventurato ospite tutti i dettagli della carneficina, i brandelli dei corpi mutilati, i piedi, la testa. E gli confessò che quasi gli facevano venire l’acquolina.  

Il temporale aumentava d’intensità e l’aria fu scossa da un lampo terribile.

Il vecchio continuava: “per quanto rispetti l’Onnipotente, cominciai a sentire un certo appetito per cose che non potevo ne piantà ne comprà… Dicono che la carne fa sangue e forza e dà più vita, così pensaje se un cristiano poteva vivere e vivere in eterno se ne magnava di più”.
Poi sul libro poggiato sul tavolo cadde una goccia rossa. Sollevando lo sguardo notò che sul soffitto si stava allargando una grande e irregolare macchia rossa.

Non ebbe neppure il tempo di urlare che cadde un fulmine potentissimo; la casa maledetta andò in cenere ed egli sprofondò nell’oblio che salvò la sua mente.



Il vero terrore si può trovare nelle antiche fattorie nei boschi del New England. Potere, solitudine, senso del grottesco e superstizione, si uniscono a formare la perfezione dell’orrore.
Qui si trova il primo accenno alla città di Arkam nella valle del fiume Miskatonic.
Il viaggiatore che, venendo da Boston, sbagli strada ed imbocchi la biforcazione del picco di Aylesbury poco oltre Dean’s Corner, si troverà ben presto in una regione solitaria e strana.

venerdì 4 maggio 2012

La palude della luna (1921)


Il narratore racconta le vicissitudini conclusesi con la scomparsa del suo amico Denys Barry.
Questi, originario dell’Irlanda, aveva fatto fortuna negli Stati Uniti e adesso tornato a Kilderry aveva riacquistato il vecchio castello che un tempo era appartenuto alla sua famiglia e lo aveva riportato al suo antico splendore. 

Dopo alcuni mesi Barry invitò l’amico me mostrargli i suoi progressi e per trovare sostegno a causa delle maldicenze e superstizioni legate a quel luogo che lo avevano messo in cattiva luce agli occhi della popolazione locale. 

Giunto l’amico gli fu mostrato il castello, il piccolo villaggio adiacente (occupato dagli operai dato che i paesani erano andati via) e la palude. Questa, secondo le intenzioni di Denys, sarebbe stata bonificata ed il terreno avrebbe ospitato campi e orti. 

Molte erano le leggende su quel luogo e del rudere sull’isolotto al centro della palude dove risiedeva uno spirito maligno. Si parlava di luci che danzavano nelle notti illuni e di venti gelidi che si alzavano nelle sere d’estate. Figure ammantate che fluttuavano sull’acqua e un’immaginaria città di pietra in fondo all’acquitrino.
In un’epoca favolosa la pestilenza aveva decimato i figli di Partholan e nel Libro degli Invasori veniva detto che quei discendenti dei greci fossero tutti sepolti a Tallaght, ma voci sostenevano che una delle loro città, qui a Kilderry, fosse sopravvissuta grazie alla protezione della luna e che una frana l’avesse sepolta quando dalla Scizia erano arrivati i nemediani sulle trenta navi.

La prima notte il narratore  che alloggiava in una delle torri fu destato da suoni in lontananza e sognò una magnifica città che sorgeva in una valle verdeggiante. Ricca di strade, statue, ville, templi con iscrizioni che inneggiavano alla grandezza greca.

La notte seguente, ormai confuso se queste fossero visioni reali o solo un sogno, vide dalla sua finestra al posto della palude la città meravigliosa e fu colpito da quegli incessanti suoni che riconobbe essere di flauti e delle strana attività che di notte si teneva al villaggio: una fantasmagoria di figure danzanti. Poi la valanga e la città fu sommersa. Al tempio, l’anziana sacerdotessa Cleis, giaceva immobile e fredda con una corona d’avorio sulla testa.

Il giorno dopo andò a visitare il villaggio con l’amico che sosteneva che gli operai stessero diventando sempre più pigri. Questi infatti sembravano assonnati e stanchi senza ricordare bene il perché. Quello che credevano di ricordare era un sogno confuso e una musica.

La notte successiva fu ridestato dalla solita musica che adesso assumeva un ritmo incessante. Un bagliore rosso, penetrando dalla finestra, illuminava la stanza. Si vestì prendendo la pistola e il cappello ma inizialmente non volle vedere cosa stesse accadendo. Poi si affacciò:
sulla palude pioveva un diluvio di luci sanguigne e sinistre e al posto delle rovine si ergeva un maestoso edificio, nuovo, cinto da colonne dove al suo interno potevano scorgersi figure nere in movimento. Queste danzavano al ritmo di tamburi. In parte scivolando, in parte galleggiando nell’aria, le naiadi vestite di bianco si ritiravano lentamente verso il tempio sull’isolotto. Esse suonando i loro flauti attiravano gli operai instupiditi dal sonno verso le acque della palude. Essi s’immersero e sprofondarono. La stessa cosa accadde ai servitori che risiedevano nel castello. Quando tutti sparirono in un vortice di bolle, la musica tacque e i bagliori si spensero.

Fisicamente prostrato perse i sensi, per poi ridestarsi dall’echeggiare di urla. Fu investito da una spettrale e gelida corrente che lo indusse alla fuga.
Mentre si allontanava in fretta costeggiando la palude fu colpito dall’inusuale gracidare di grossi rospi, di cui solo adesso l’acquitrino si era popolato ed infine vide, nel chiarore della luna che non si rifletteva sulle acque, sull’isolotto un’ombra sottile che si contorceva  e lottava contro demoni invisibili. L’effige blasfema di colui che era stato Denys Barry.  


Il racconto fu letto ad alta voce dall’autore in occasione di un convegno di soci della stampa dilettante a Boston (marzo 1921, pochi giorni dopo averlo scritto) ottenendo un riscontro positivo del pubblico.

lunedì 30 aprile 2012

Ex Barone (Old Bugs 1919)


1950 Chicago. Vige la legge sul Proibizionismo.

La Sala da BilIardo di Sheehan, luogo malsano in cui si spacciavano liquori e narcotici, era un luogo decadente, sempre impestato da fumo di sigari ed odori insalubri. Meta di molti avventori notturni in cerca di trasgressione.

Un misterioso individuo soprannominato Ex Barone veniva spesso in questo luogo. Un barbone dal passato oscuro e dal comportamento ambiguo. Solitamente innocuo, si prestava ai lavori più umili per ottenere in cambio la sua dose di whiskey e hashish. Parlava poco ma dai suoi modi s’intuiva che la sua provenienza non erano i bassifondi. Si credeva che un tempo fosse stato uno scrittore o un professore ed ogni tanto si soffermava a guardare una vecchia foto che ritraeva una nobildonna. Il suo carattere mite e schivo, però, lasciava il posto ad una inspiegabile aggressività ogni qual volta che un nuovo avventore, specie se giovane, si presentava nel locale con l’intento di sperimentare per curiosità i nuovi piaceri proibiti.
Uno di questi casi avvenne quando si presentò da Sheehan il giovane Alfred Trever. Egli veniva da un ottima famiglia della piccola città di Appleton, Wisconsin dove frequentava il Lawrence College. Il padre Karl era avvocato mentre la madre, Eleanor Wing, era una stimata poetessa.

La College era membro della confraternita “Tappa Tappa Keg” dove aveva conosciuto i vizzi e le trasgressioni e adesso voleva andare oltre, a dispetto dei rigidi insegnamenti da parte della madre che da giovane aveva vissuto una spiacevole disavventura con un suo ex fidanzato.
Questi era Galpin, giovane di talento di Appleton. Per i suoi meriti aveva ottenuto una cattedra al Lawrence College, ma ben presto a causa del vizio dell’alcol dovette trasferirsi a New York dove ottenne nuovi onori come scrittore e oratore specializzato in belles lettres. Scrisse appassionate difese di Villon, Poe, Verlaine e Oscar Wilde. La collaborazione con un certo “Colsole Hasting”, produttore teatrale e cinematografico, segnò il suo definitivo declino quando questi sparì dalla scena lasciando Galpin sul lastrico. La fidanzata lo lasciò sposando Karl Trever, ma per l’affetto che ancora la legava ad egli battezzò il figlio col suo nome.

Pete Schultz, “recluta-pivelli” del locale di Sheehan, fece accomodare il giovane. Mentre questi si presentava spiegando la proprietario quali fossero le sue intenzioni, Ex Barone era intento a pulire i pavimenti con uno strofinaccio. Non appena vennero nominati Appleton, Lawrence ed infine Wing, il vagabondo trasalì. Gettò scopa e strofinaccio e quasi avventandosi sul giovane gli intimò di non commettere un errore così stupido. Il giovane lo scacciò infastidito mentre Sheehan ed altri intervennero nel battibecco che si stava istaurando. Scoppiò una lite furibonda che fu sedata solo dall’intervento di due poliziotti che dovendo ricorrere alle maniere forti per fermare l’ira del misterioso barbone, lo riempirono di percosse fino ad ucciderlo.
Quando il cadavere fu condotto via cadde dalla sua tasca un pezzetto di stoffa. Trevor trasalì, quando trovando una vecchia foto avvolta nella stoffa si rese conto che la donna in essa ritratta era sua madre.



Racconto scritto come risposta all’amico – corrispondente Alfred Galping il quale aveva raccontato che il giorno prima che entrasse in vigore il Proibizionismo, avesse comprato una bottiglia di whiskey e una di Porto per andarsele a godere nei boschi intorno ad Appleton.
Lovecraft che aborriva l’alcool concludeva il racconto con un messaggio rivolto a Galpin:
“Adesso farai il bravo?”               

sabato 28 aprile 2012

Ex Oblivione (1920-1921)


“Arrivato a i miei ultimi giorni, e spinto verso la follia dalle atroci banalità dell’esistenza, cercai la salvezza nel meraviglioso rifugio del sonno”.

Sognai antichi giardini e boschi incantati. Un’altra volta salpai senza meta sotto costellazioni ignote. Un’altra volta m’imbarcai su una chiatta lungo un torrente senza sole, un fiume sotterraneo che sfociava in un altro mondo. Crepuscoli purpurei, pergolati multicolore, rose immobili e valli dorate.
Giunsi ad un muro possente coperto di rampicanti dove si apriva un piccolo cancello di bronzo.

Ho vagato tanto per luoghi magici ma la meta delle mie fantasie era sempre la stessa, oltrepassare il cancello.

Una notte, nella città di sogno di Zakarion, trovai un vecchio papiro scritto dai saggi onirici. Tra le tante cose si parlava della valle dorata e del cancello di bronzo e due erano le ipotesi su cosa vi fosse oltre (Prodigi meravigliosi o cose orribili e inganni).

Venni a sapere di una droga capace di farmi superare il cancello. La presi, ed infatti trovai il cancello socchiuso.
Mentre lo aprivo una pioggia di luce rischiarava grandi alberi e la sommità di templi sepolti.
Ma non appena il cancello fu aperto tutto divenne il vuoto luminoso dello spazio disabbitato e illimitato. Più felice di quanto avrei mai creduto mi sono dissolto nuovamente nell’oblio infinito, da cui il demone della vita mi aveva chiamato per una breve e sconsolata ora (il tempo della vita).


Nota - Uno dei numerosi “prose poems” e racconti dunsaniani

Memoria (1919)


Sulla valle del Nis splende una falce di luna pallida e maligna.
Tra la putrida vegetazione, al di sotto del pericolosissimo albero d’upas, si scorgono resti di una civiltà dimenticata. Colonne spezzate, ruderi di pietra e tracce di pavimentazioni.
Su alberi giganteschi balzano piccole scimmie.
Nella parte più bassa della valle scorre il fiume Than dalle acque limacciose. Esso nasce e si perde in grotte sotterranee ed il Demone della Vale ignora perché le sue acque siano rosse.

Questi chiese al Genio dei Raggi di Luna a quale antica civiltà appartenessero quei resti.
Egli non ricorda bene ma sa che quelle creature somigliavano alle acque del fiume Than che nessuno potrà mai spiegare. Le loro imprese durarono un attimo ma il loro aspetto era simile a quello delle piccole scimmie.
In nome della razza però gli è rimasto impresso per via dell’assonanza con nome del fiume (Than - Man). Si chiamavano uomini.

Il Genio tornò sulla falce di luna mentre il Demone rimase pensieroso a fissare una piccola scimmia appollaiata su di un albero che cresceva in un cortile devastato.


NOTA. Uno dei così detti “prose poems”, firmato con lo pseudonimo di Lewis Theobald

HPL NOTE - Riformato!


Nel 1917, all’età di 27 anni tenta di arruolarsi nella Guardia Nazionale di Rhode Island, ma per imposizione della madre viene respinto. Qualche mese dopo si presenta spontaneamente al servizio di leva ma viene riformato. Promette alla madre di non tentare nuovamente.

Ciò gli causerà una cocente delusione e una profonda ferita.

Se non può essere il trionfatore del giorno lo sarà della notte.

“Sono il più notturno dei mortali, anche se deve esserci una certa differenza tra l’uscire alle ora piccole e lo stare semplicemente alzati. Adoro consultare antichi volumi, scribbacchiar lettere e pessimi versi quando il mondo è avviluppato dal silenzio e dall’oscurità .”

La tomba (1917)


Sedibus ut saltem placidis in morte quiescam
"Affinché almeno nella morte io possa riposare in una dimora tranquilla”
(Eneide – Incontro con Palinuro 331-383)

Il racconto narra delle vicende di Jervas Dudley.

Egli in prima persona racconta la sua vita fin al suo internamento in manicomio.
Di carattere schivo, Jervas trascorse la sua infanzia e adolescenza nella solitudine trovando sollievo in numerose letture e solitarie escursioni in campi e boschi delle sue proprietà.
Ho detto di essermi appartato da questo mondo, ma non di averlo fatto da solo. Nessun essere umano  lo può, e se gli manca la compagnia dei vivi cercherà quella di chi non lo è o non lo è più.

Un giorno durante le sue escursioni s’imbatte nella tomba scavata sul fianco di una collina appartenuta agli Hyde,  una famiglia decaduta e dal passato oscuro di cui egli era il discendente.
Questa tomba di granito corroso dall’intemperie è chiusa da una massiccia porta di pietra. Seppur serrata dai massicci cardini arrugginiti e da numerose catene con lucchetto, essa rimane perennemente socchiusa la sciando un piccolo spiraglio dal quale non si vedono che tenebre ma rimane comunque impossibile accedervi.

Il ragazzo cominciò a frequentare spesso quel luogo tentando di forzare i lucchetti e cercando di scoprire cosa si celasse in essa. Studiò la storia di quella famiglie (racconti di riti misteriosi e sacrileghe baldorie) e le cause che portarono alla distruzione della villa i cui resti giacevano nella radura nei pressi della collina. Un fulmine seguito da un incendio condusse alla morto l’ultimo degli Hyde.

Ogni tentativo di aprire la tomba fu vano. Imbattutosi nella lettura delle Vite di Plutarco fu impressionato da un brano sulla vita di Teseo dove si parla della gran pietra sotto la quale l’eroe avrebbe trovato gli strumenti del suo destino, ma solo quando fosse diventato abbastanza grande da sollevarla.
Così si disse che non era ancora il tempo per svelare quel mistero.

Intanto il suo comportamento assumeva aspetti sempre più strani. Passava le notti vagabondando per i cimiteri sentendo strane voci. Raccontava aneddoti macabri su cadaveri che si rivoltavano nella tomba, e spesso si addormentava davanti l’ingresso della tomba abbandonata.

Un giorno di questi, svegliato da quella che credette essere una luce proveniente dal suo interno, come guidato da una strana forza, tornò a casa e in una cassa trovò la chiave.
Aprì e scese nella cripta. Numerose bare sigillate in diverso stato di conservazione, tra queste lesse la targa di Sir Geoffrey Hyde, venuto nel Sussex nel 1640 e morto pochi anni prima.
Vicino vi era un’altra bara aperta e in buono stato con inciso solo un nome di battesimo. Un impulso inspiegabile lo portò a spegnere la candela e sdraiarvisi dentro.

Per lui divenne un ossessione recarsi alla cripta ed il suo comportamento continuava ad essere sempre più preoccupante. Il suo linguaggio diventò più arcaico sfoggiando un’erudizione straordinaria e spesso componeva versi leziosi e indecenti. Inoltre in quel periodo sviluppò un innato terrore  del fuoco e dei temporali.
I genitori preoccupati incaricarono un servitore di seguirlo nei suoi girovagare. Da prima temette di essere stato scoperto ma la spia riferì soltanto che il giovane si era intrattenuto nella radura ai piedi della collina. A quanto pare non aveva visto nel la tomba ne egli che vi entrava.

Una notte si presentò a Jarvas uno spettacolo insolito.
La dimora distrutta ormai da più di un secolo si mostrava in tutto il suo splendore e un numeroso stuolo di ospiti occupava le stanze illuminate. Si mescolò alla folla ed entrò alla festa dove si lascò andare al turpiloquio e alle bestemmie.
D’un tratto ci fu un tuono e divampò un incendio. Nel caos Jarvas rimase pietrificato mentre tutti fuggivano e le fiamme lo divoravano. Quando si riprese, ridestandosi da quella che era un’allucinazione, si trovò tra le braccia di due uomini mentre il padre osservava addolorato alla scena, soprattutto quando Jarvas cominciò ad urlare di voler essere sepolto nella tomba.
Nel punto in cui si abbatté il fulmine fu rinvenuta una scatola contenete numerose carte e oggetti di valore tra cui una statuetta in porcellana raffigurante un giovanotto con parrucca a boccoli del Settecento con iniziali J.H.

Il giorno dopo fu internato.
I medici provarono compassione sentendo il suo racconto, per giunta senza una prova tangibile dato che la cripta risultava chiusa e non forzata e la chiave perduta. Alcuni testimoni affermano di aver visto il ragazzo recarsi alla radura ma mai entrare nella tomba. 

Hiram, un fedele servitore afferma di aver forzato la porta ed essere entrato. Li ha trovato una tomba vuota con una targa d’argento con su inciso “Jarvas”. "In quel loculo e in quella bara hanno promesso di seppellirmi".     

La bottiglia di vetro (1897)


Il breve racconto parla del ritrovamento di un messaggio dentro una bottiglia da parte del comandante di una piccola imbarcazione a vela di nome William Jones. Recuperata dal signor John Towers e consegnata al comandante, nel messaggio vi era scritto:

1 genn 1864
La nave in cui si trovava un certo John Jones stava affondando e con essa il tesoro che trasportava. Sul retro del foglio vi era una mappa con la rotta e il punto in cui giaceva il relitto (nell’oceano indiano al largo dell’Australia).

Si recarono sul luogo ed alla prima immersione recuperarono una bottiglia di ferro con il messaggio:
“Caro cercatore, scusami per il tiro che ti ho giocato ma ben ti sta … tuttavia intendo risarcirti delle spese di viaggio”

Infatti dopo una nuova immersione fu recuperata una cassetta contenente 25 dollari.

Il denaro li ripagò delle spese ma credo che difficilmente quei marinai si avventureranno nei luoghi esotici raccomandati dalle bottiglie.

Racconto giovanile

venerdì 27 aprile 2012

Il terribile vecchio (1920)


A Kingsport nell’antica casa di Water Street, vicino al mare, abita tutto solo il Terribile Vecchio.

Non si sa bene chi sia, ma si suppone che da giovane sia stato comandante di un veliero mercantile delle Indie Orientali. 

Nel giardino della vecchia e negletta magione si trova una collezione di grandi pietre raggruppate e dipinte che ricordano gli idoli di qualche oscuro tempio orientale. Ma la cosa più strana è un’altra:

Alcuni sostengono che in una stanza vuota al pianterreno, su un tavolo, il vecchio tenga una collezione di bottiglie nelle quali è appeso un pezzetto di piombo mediante un filo (una sorta di pendolo), e che egli si rivolga ad esse chiamandole per nome (Jack, Lo Sfregiato, Long Tom, Joe lo Spagnuolo, Peters, Secondo ufficiale Ellis) e che queste oscillino per risposta.

Tre malintenzionati di un altro paese (Angelo Ricci, Joe Czanek e Manuel Silva) avendo saputo di questo vecchio solitario, che paga i rari acquisti con monete spagnole d’oro e d’argento coniate due secoli prima, e pensando  che nascondesse un tesoro di notevoli proporzioni, decisero di penetrare nella sua dimora e derubarlo.

Ricci e Silva entrarono nella villa mentre Czanek in auto si appostò sul retro in Ship Street. Alle prima urla quest’ultimo credette che i due compagni stessero torturando il vecchio per estorcergli la confessione di dove fosse nascosto il tesoro. Il tempo passò finché vide aprirsi la porticina del retro della villa. Fu sorpreso quando, invece dei compagni, vide il vecchio appoggiato al bastone con un ghigno orribile sulle labbra. Infine fu colto da sgomento quando vide che i suo occhi erano di color giallo.

Nei giorni seguenti furono ritrovati tre cadaveri orribilmente mutilati con tagli di scimitarre e segni di calci di stivali.

NOTE
Questa è la prima apparizione dell’immaginaria Kingsport (probabilmente modellata sulle reali  Newsport e Kingstown). L’invenzione di un fantastico New England è dovuta ha profonde esigenze dell’autore delineate in quelli che reputa i capisaldi della sua esistenza interiore.
  • L’amore per il bizzarro e fantastico.
  • L’amore della verità astratta e della logica scientifica
  • L’amore per tutto ciò che è antico e permanente  
Strade tutte curve che serpeggiano colline, tranquilli scenari pastorali, fresche fattorie vecchie di secoli fra antichi giardini e sotto alberi giganteschi … il tutto non frammentario o decadente ma in pieno vigore, come se al mondo non esistesse nient’altro.