sabato 26 maggio 2012

La scomparsa di Juan Romero (16 sett 1919)


Il racconto è una confessione del protagonista nei suoi ultimi anni di vita. Egli preferire mantenere celato il suo nome e le sue origini. D'altronde egli afferma di essere emigrato negli Stati Uniti per lasciare il suo passato alle spalle. Un tempo era stato sotto le armi in India ed avendo sondato le dottrine d’Oriente si sentiva più a suo agio tra i barbuti maestri orientali che non tra i colleghi dell’esercito.

Nell’estate e nell’autunno del 1894 viveva nelle distese aride delle Cactus Mountains lavorando come semplice operaio presso la famosa miniera Norton.  Una grotta d’oro profondamente nascosta sotto un lago di montagna. Si erano scoperte altre grotte e il soprintendente, un certo signor Arthur, ipotizzava sulla probabile estensione della rete di caverne. Un esercito di miniatori lavorava notte e giorno.

Il messicano Juan Romero giunse alla miniera poco dopo il protagonista. In lui non c’era niente del conquistador castigliano o del pioniere americano ma dell’antico e nobile azteco. Il taciturno peone si alzava la mattina presto e seguiva affascinato il sorgere del sole fra le montagne tenendo le braccia tese verso l’astro come in una sorta di rito. Sporco ed ignorante proveniva da un ambiente bassissimo. Da bambino era stato trovato in una rozza capanna di montagna unico superstite d’un epidemia. I corpi dei probabili genitori erano stati spolpati dagli avvoltoi e ritrovati in una strana fenditura nella roccia poco lontana dalla capanna. In seguito una valanga distrusse ogni traccia della scena. Fu allevato da una famiglia di ladri di bestiame che gli diede il nome di Juan.

L’attaccamento che provava per il protagonista era dovuto all’antico e curioso anello indù che portava nei momenti di riposo. Il curioso messicano lo guardava affascinato. I bizzarri geroglifici che coprivano l’anello sembravano risvegliare nella sua mente qualche vago ricordo, anche se non era possibile che li avesse visti altrove.

18 e 19 ottobre 1894
Durante le operazioni di ampliamento della miniera si fecero esplodere delle cariche talmente potenti che incresparono il lago Jewel. Le indagini dimostrarono che sotto la sede dello scoppio si era aperto un abisso senza fondo. Nessuna lampada riusciva ad illuminarla e nessuna corda poteva toccarne il fondo. Gli operai si rifiutarono di lavorare in quell’ambiente. 

Alle due del mattino un coyote cominciò ad ululare. Un temporale si annunciava oltre le cime delle montagne e le nuvole dalle forme fantastiche coprivano la luna a tre quarti.
Il protagonista fu svegliato da Romero agitato.
- “Madre de Dios! … el sonido … oiga Vd! Lo oye Vd?”
Cercò di capire a cosa si riferisse e alla fine capì:
- “El ritmo … el ritmo de la tierra … Quelle pulsazioni nel terreno ”.
Gli venne in mente un brano di Joseph Glanvill citato da Poe:
“La vastità, profondità e imperscrutabilità dell’opera Sua, più profonda del pozzo di Democrito”

Romero balzò dalla cuccetta e si fermò a fissare l’anello che brillava in modo strano a ogni lampo, poi si diresse verso la miniera. I due giunsero alla miniera senza essere visti. Mentre scendevano nel pozzo il ritmo pulsante si fece articolato come un battere di tamburi e un coro di molte voci. Percorrendo sale e corridoi si accorse di poter vedere pur non avendo con se lampade e si rese conto che l’anello emanava uno strano lucore innaturale, rischiarando debolmente l’aria umida e soffocante. Una nota diversa, pazzesca, si era insinuata nella melodia. Romero cominciò a correre. Rimasto solo poteva sentirlo urlare esprimendosi in una lingua del tutto sconosciuta.. l’unica parola che riuscì a decifrare fu “Huitzilopotchli” che in seguito rintracciò nell’opera del grande storico (Prescott, Conquest of Mexico) rabbrividendo per le implicazioni che suggeriva.

Arrivato dove si apriva l’abisso, la luce dell’anello si spense mentre un’altra si accese nelle viscere della terra. Un pandemonio di fiamme ondeggianti e orrendi rumori. Prima una vaga chiazza luminosa poi dalla confusione cominciarono a staccarsi delle sagome tra le quali vide … Romero. Svenne.

Si risvegliò nella sua branda all’alba. A pochi metri da lui il cadavere di Juan Romero steso su un tavolo circondato da un gruppo di uomini. La morte fu attribuita al lampo che aveva compito e fatto tremare le montagne. Il temporale aveva generato una valanga che aveva richiuso la voragine. In seguito tentarono di scavare per riaprirla senza alcun esito per cui infine abbandonarono il progetto.
Il suo anello era spiegabilmente sparito e non fu più ritrovato.

Ormai dopo anni … “ritengo che si sia trattato di un sogno e niente più … ma a volte in autunno sento il maledetto pulsare della terra … allora ho la certezza che la scomparsa di Juan Romero sia stata, in realtà, una fine atroce”.



domenica 6 maggio 2012

I gatti di Ulthar (15-06-1920)


L’Egitto è depositario di racconti che risalgono alle città dimenticate di Meroe e Ophir, dei segreti dell’Africa oscura e misteriosa.

Ad Ulthar, città oltre il fiume Skai vivevano un vecchio contadino e sua moglie che si divertivano ad intrappolare ed uccidere i gatti che osavano entrare nella loro proprietà. La loro casa sorgeva all’ombra dei rami di vecchie querce che sbucavano dal retro di un cortile dimenticato da tempo.
Gli abitanti pur sospettando della coppia non aveva prove certe per accusarli e nessuno osava rivolgere loro la parola.  Sta di fatto che ogni volta che un gattino si dirigesse verso la capanna sotto le querce nere, dopo il tramonto si sentivano certi lamenti, e dell’animale non se ne sapeva più nulla.

Un giorno giunse in città una carovana di nomadi diversi da tutti gli altri che erano passati di li. Essi, in cambio di pezzi d’argenti, leggevano il futuro e compravano perline colorate nelle botteghe. I loro carri erano decorati con effigi misteriose col corpo umano e teste di gatti, falchi, arieti e leoni, ed il loro capo indossava un copricapo con due corni e un curioso disco in mezzo. 

Tra i nomadi faceva parte un ragazzo di nome Menes, senza genitori, molto malato il cui unico conforto era un piccolo gattino nero. Quando una notte l’animale sparì, il ragazzo cominciò a piangere e i cittadini gli raccontarono dell’inquietante coppia. Allora questi rivolgendosi al cielo cominciò ad intonare una misteriosa preghiera. Le nuvole assunsero strane forme: figure esotiche fatte d’ombra di creature ibride sormontate da corni con un disco in mezzo.

La stesa notte la carovana ripartì. Mentre la gente scoprì con sorpresa che tutti i gatti della città erano spariti. Qualcuno affermava di averli visti dirigersi verso la capanna dei due anziati (Atal figlio del locandiere), altri come il vecchio Kranon affermava che erano stati i nomadi a rubarli. 

L’indomani tutti i gatti fecero ritorno alla proprie abitazioni. Avevano un aspetto magnifico e sembravano ingrassati, tanto da rifiutare il cibo che gli veniva offerto.

Passata una settimana, i cittadini di Ulthar si accorsero che dalla vecchia capanna non filtrava luce, e il magro Nith osservò che nessuno aveva più visto i due vecchi. Anche se con riluttanza fu organizzata una spedizione capitanata dal borgomastro assieme al fabbro Shang e il tagliapietre Thul. Dopo aver abbattuto la porticina trovarono due scheletri perfettamente ripuliti accanto al camino e per terra una gran numero di grossi scarafaggi. 

Tra i notabili ci furono numerose discussioni. Zath il medico parlò a lungo con il primo notaio Nith e gli altri, e alla fine approvarono la famosa legge di cui raccontano i mercanti di Hatheg e su cui discutoni i viaggiatori a Nir: che a Ulthar nessuno può uccidere un gatto.



Lovecraft aveva una grande passione per i gatti. Ne ebbe uno che si chiamava Nigger-Man.

Un’illustrazione e una vecchia casa (12-12-1920)


Il protagonista narra la sua spiacevole avventura avvenuta in un pomeriggio del novembre del 1896. Diretto in bicicletta da Boston ad Arkam per delle ricerche genealogiche, attraversando i boschi nella valle del Miskatonic, fu sorpreso da un temporale e cercando rifugio trovò un antico e repellente edificio di legno in mezzo a due grandi olmi nudi ai piedi di un’altura rocciosa. 

Pur credendo che la fattoria fosse disabitata bussò senza ottenere risposta così con un po’ di timore aprì la porta ed entrò. L’ingresso era piccolo e spoglio. Una scala portava al piano superiore mentre ai lati due porte chiuse immettevano in altri ambienti. Dalla porta di sinistra entrò in un salotto scarsamente arredato: un tavolo, diverse sedie, un camino su cui ticchettava un vecchio orologio. Curiosando per la stanza notò alcune carte e dei libri poggiati sul tavolo (una Bibbia del sec. XVIII, una copia del Pilgrim’s Progress dello stesso periodo illustrata con grottesche incisioni su legno e stampata dal fabbricante di almanacchi Isaiah Thomas, le pagine semimarcite del Magnalia Christi Americana di Cotton Mather e altri libri ugualmente antiquati). Tra questi notò un libro in ottimo stato, di media grandezza rilegato in pelle con fermagli di metallo. Il suo stupore crebbe quando scoprì che si trattava della rarissima descrizione del Congo (Regnum Congo) redatta in latino da Pigafetta e basata sugli appunti del marinaio Lopez, arricchita dalle curiose illustrazioni (congolesi dalla pelle bianca e i lineamenti europei) dei fratelli De Bry, data di pubblicazione Francoforte 1598.  

Sfogliò il libro incuriosito e notò la tendenza del volume ad aprirsi alla pagina dove si trovava la Tavola XII che rappresentava, con orrendi particolari, una macelleria dei cannibali Anzique.

Ad un tratto fu sorpreso da un rumore di passi nella stanza di sopra. Attese finché la porta del salotto non si aprì e sulla soglia comparve uno strano uomo. Un vecchio dalla barba bianca vestito di stracci alto e possente. La fronte coperta da una ciocca di capelli bianchi e gli occhi azzurri, benché un po’ iniettati di sangue, sembravano anormalmente intensi ed acuti. Seppur trascurato appariva distinto e impressionante.  
Fece accomodare il suo ospite e si sedette di fronte al lui. Parlava in modo stranissimo, una forma esasperata di dialetto americano ormai in disuso da tempo.

Parlarono della pioggia e come non passasse più nessuno da quelle parti dopo che era stata tolta la diligenza per Arkam. Presto la discussione passò al libro e di come il vecchio ne fosse venuto in possesso. Questi  rispose che gli era stato regalato dal capitano Ebenezer Holt nel sessantotto. Questi navigò per anni su un mercantile di Salem collezionando cose curiose ad ogni porto in cui si fermava. Li libro in questione lo trovò a Londra.

Il vecchio prese il libro ed, inforcando un paio di occhiali sporchi e antiquati con piccole lenti ottagonali e montatura di ferro, rifletteva sulla sua stranezza, specie delle illustrazioni.

Ebenezer sapeje legge lu latinu ma io no. Me lu leggeje due o tre mastri de scola e poi lu parroco Clark, quello che annegaje nello stagno… strano come’ figure fanno pensare, … hai visto mai alberi co ‘e foglie così grandi… e l’uomini … mica sono negri, non ci somigliano … chisti so’ come scimmie o miezz’uomini e miezzo scimmie”. 

Poi indicò un’altra illustrazione che rappresentava un incrocio tra un drago e una testa di alligatore per poi arrivare alla Tavola XII.
Il suo interesse morboso per quella scena era evidente, facendo notare allo sventurato ospite tutti i dettagli della carneficina, i brandelli dei corpi mutilati, i piedi, la testa. E gli confessò che quasi gli facevano venire l’acquolina.  

Il temporale aumentava d’intensità e l’aria fu scossa da un lampo terribile.

Il vecchio continuava: “per quanto rispetti l’Onnipotente, cominciai a sentire un certo appetito per cose che non potevo ne piantà ne comprà… Dicono che la carne fa sangue e forza e dà più vita, così pensaje se un cristiano poteva vivere e vivere in eterno se ne magnava di più”.
Poi sul libro poggiato sul tavolo cadde una goccia rossa. Sollevando lo sguardo notò che sul soffitto si stava allargando una grande e irregolare macchia rossa.

Non ebbe neppure il tempo di urlare che cadde un fulmine potentissimo; la casa maledetta andò in cenere ed egli sprofondò nell’oblio che salvò la sua mente.



Il vero terrore si può trovare nelle antiche fattorie nei boschi del New England. Potere, solitudine, senso del grottesco e superstizione, si uniscono a formare la perfezione dell’orrore.
Qui si trova il primo accenno alla città di Arkam nella valle del fiume Miskatonic.
Il viaggiatore che, venendo da Boston, sbagli strada ed imbocchi la biforcazione del picco di Aylesbury poco oltre Dean’s Corner, si troverà ben presto in una regione solitaria e strana.

venerdì 4 maggio 2012

La palude della luna (1921)


Il narratore racconta le vicissitudini conclusesi con la scomparsa del suo amico Denys Barry.
Questi, originario dell’Irlanda, aveva fatto fortuna negli Stati Uniti e adesso tornato a Kilderry aveva riacquistato il vecchio castello che un tempo era appartenuto alla sua famiglia e lo aveva riportato al suo antico splendore. 

Dopo alcuni mesi Barry invitò l’amico me mostrargli i suoi progressi e per trovare sostegno a causa delle maldicenze e superstizioni legate a quel luogo che lo avevano messo in cattiva luce agli occhi della popolazione locale. 

Giunto l’amico gli fu mostrato il castello, il piccolo villaggio adiacente (occupato dagli operai dato che i paesani erano andati via) e la palude. Questa, secondo le intenzioni di Denys, sarebbe stata bonificata ed il terreno avrebbe ospitato campi e orti. 

Molte erano le leggende su quel luogo e del rudere sull’isolotto al centro della palude dove risiedeva uno spirito maligno. Si parlava di luci che danzavano nelle notti illuni e di venti gelidi che si alzavano nelle sere d’estate. Figure ammantate che fluttuavano sull’acqua e un’immaginaria città di pietra in fondo all’acquitrino.
In un’epoca favolosa la pestilenza aveva decimato i figli di Partholan e nel Libro degli Invasori veniva detto che quei discendenti dei greci fossero tutti sepolti a Tallaght, ma voci sostenevano che una delle loro città, qui a Kilderry, fosse sopravvissuta grazie alla protezione della luna e che una frana l’avesse sepolta quando dalla Scizia erano arrivati i nemediani sulle trenta navi.

La prima notte il narratore  che alloggiava in una delle torri fu destato da suoni in lontananza e sognò una magnifica città che sorgeva in una valle verdeggiante. Ricca di strade, statue, ville, templi con iscrizioni che inneggiavano alla grandezza greca.

La notte seguente, ormai confuso se queste fossero visioni reali o solo un sogno, vide dalla sua finestra al posto della palude la città meravigliosa e fu colpito da quegli incessanti suoni che riconobbe essere di flauti e delle strana attività che di notte si teneva al villaggio: una fantasmagoria di figure danzanti. Poi la valanga e la città fu sommersa. Al tempio, l’anziana sacerdotessa Cleis, giaceva immobile e fredda con una corona d’avorio sulla testa.

Il giorno dopo andò a visitare il villaggio con l’amico che sosteneva che gli operai stessero diventando sempre più pigri. Questi infatti sembravano assonnati e stanchi senza ricordare bene il perché. Quello che credevano di ricordare era un sogno confuso e una musica.

La notte successiva fu ridestato dalla solita musica che adesso assumeva un ritmo incessante. Un bagliore rosso, penetrando dalla finestra, illuminava la stanza. Si vestì prendendo la pistola e il cappello ma inizialmente non volle vedere cosa stesse accadendo. Poi si affacciò:
sulla palude pioveva un diluvio di luci sanguigne e sinistre e al posto delle rovine si ergeva un maestoso edificio, nuovo, cinto da colonne dove al suo interno potevano scorgersi figure nere in movimento. Queste danzavano al ritmo di tamburi. In parte scivolando, in parte galleggiando nell’aria, le naiadi vestite di bianco si ritiravano lentamente verso il tempio sull’isolotto. Esse suonando i loro flauti attiravano gli operai instupiditi dal sonno verso le acque della palude. Essi s’immersero e sprofondarono. La stessa cosa accadde ai servitori che risiedevano nel castello. Quando tutti sparirono in un vortice di bolle, la musica tacque e i bagliori si spensero.

Fisicamente prostrato perse i sensi, per poi ridestarsi dall’echeggiare di urla. Fu investito da una spettrale e gelida corrente che lo indusse alla fuga.
Mentre si allontanava in fretta costeggiando la palude fu colpito dall’inusuale gracidare di grossi rospi, di cui solo adesso l’acquitrino si era popolato ed infine vide, nel chiarore della luna che non si rifletteva sulle acque, sull’isolotto un’ombra sottile che si contorceva  e lottava contro demoni invisibili. L’effige blasfema di colui che era stato Denys Barry.  


Il racconto fu letto ad alta voce dall’autore in occasione di un convegno di soci della stampa dilettante a Boston (marzo 1921, pochi giorni dopo averlo scritto) ottenendo un riscontro positivo del pubblico.