venerdì 4 maggio 2012

La palude della luna (1921)


Il narratore racconta le vicissitudini conclusesi con la scomparsa del suo amico Denys Barry.
Questi, originario dell’Irlanda, aveva fatto fortuna negli Stati Uniti e adesso tornato a Kilderry aveva riacquistato il vecchio castello che un tempo era appartenuto alla sua famiglia e lo aveva riportato al suo antico splendore. 

Dopo alcuni mesi Barry invitò l’amico me mostrargli i suoi progressi e per trovare sostegno a causa delle maldicenze e superstizioni legate a quel luogo che lo avevano messo in cattiva luce agli occhi della popolazione locale. 

Giunto l’amico gli fu mostrato il castello, il piccolo villaggio adiacente (occupato dagli operai dato che i paesani erano andati via) e la palude. Questa, secondo le intenzioni di Denys, sarebbe stata bonificata ed il terreno avrebbe ospitato campi e orti. 

Molte erano le leggende su quel luogo e del rudere sull’isolotto al centro della palude dove risiedeva uno spirito maligno. Si parlava di luci che danzavano nelle notti illuni e di venti gelidi che si alzavano nelle sere d’estate. Figure ammantate che fluttuavano sull’acqua e un’immaginaria città di pietra in fondo all’acquitrino.
In un’epoca favolosa la pestilenza aveva decimato i figli di Partholan e nel Libro degli Invasori veniva detto che quei discendenti dei greci fossero tutti sepolti a Tallaght, ma voci sostenevano che una delle loro città, qui a Kilderry, fosse sopravvissuta grazie alla protezione della luna e che una frana l’avesse sepolta quando dalla Scizia erano arrivati i nemediani sulle trenta navi.

La prima notte il narratore  che alloggiava in una delle torri fu destato da suoni in lontananza e sognò una magnifica città che sorgeva in una valle verdeggiante. Ricca di strade, statue, ville, templi con iscrizioni che inneggiavano alla grandezza greca.

La notte seguente, ormai confuso se queste fossero visioni reali o solo un sogno, vide dalla sua finestra al posto della palude la città meravigliosa e fu colpito da quegli incessanti suoni che riconobbe essere di flauti e delle strana attività che di notte si teneva al villaggio: una fantasmagoria di figure danzanti. Poi la valanga e la città fu sommersa. Al tempio, l’anziana sacerdotessa Cleis, giaceva immobile e fredda con una corona d’avorio sulla testa.

Il giorno dopo andò a visitare il villaggio con l’amico che sosteneva che gli operai stessero diventando sempre più pigri. Questi infatti sembravano assonnati e stanchi senza ricordare bene il perché. Quello che credevano di ricordare era un sogno confuso e una musica.

La notte successiva fu ridestato dalla solita musica che adesso assumeva un ritmo incessante. Un bagliore rosso, penetrando dalla finestra, illuminava la stanza. Si vestì prendendo la pistola e il cappello ma inizialmente non volle vedere cosa stesse accadendo. Poi si affacciò:
sulla palude pioveva un diluvio di luci sanguigne e sinistre e al posto delle rovine si ergeva un maestoso edificio, nuovo, cinto da colonne dove al suo interno potevano scorgersi figure nere in movimento. Queste danzavano al ritmo di tamburi. In parte scivolando, in parte galleggiando nell’aria, le naiadi vestite di bianco si ritiravano lentamente verso il tempio sull’isolotto. Esse suonando i loro flauti attiravano gli operai instupiditi dal sonno verso le acque della palude. Essi s’immersero e sprofondarono. La stessa cosa accadde ai servitori che risiedevano nel castello. Quando tutti sparirono in un vortice di bolle, la musica tacque e i bagliori si spensero.

Fisicamente prostrato perse i sensi, per poi ridestarsi dall’echeggiare di urla. Fu investito da una spettrale e gelida corrente che lo indusse alla fuga.
Mentre si allontanava in fretta costeggiando la palude fu colpito dall’inusuale gracidare di grossi rospi, di cui solo adesso l’acquitrino si era popolato ed infine vide, nel chiarore della luna che non si rifletteva sulle acque, sull’isolotto un’ombra sottile che si contorceva  e lottava contro demoni invisibili. L’effige blasfema di colui che era stato Denys Barry.  


Il racconto fu letto ad alta voce dall’autore in occasione di un convegno di soci della stampa dilettante a Boston (marzo 1921, pochi giorni dopo averlo scritto) ottenendo un riscontro positivo del pubblico.

1 commento: